Le api, con la loro attività, possono monitorare l’ambiente. Claudio Porrini, ricercatore dell’Università di Bologna, ci spiega come si utilizza il loro “lavoro.
Quando si pensa alle api, si pensa alla loro operosità e alla produzione del miele. In pochi sanno che questi piccoli insetti sono ottimi indicatori biologici, indispensabili per monitorare lo stato di salute dell’ambiente. È quanto si fa al GEA, il centro di monitoraggio ambientale creato da Eni nell’ambito del progetto Energy Valley. Ci spiega meglio il meccanismo Claudio Porrini, ricercatore dell’Università di Bologna, che ha curato per la Fondazione Mattei lo studio di questo progetto innovativo.
L’ape contribuisce alla tutela, conservazione e restaurazione del territorio, nella misura della sua opera di impollinazione (servizio ecosistemico) per la maggioranza (75-80%) delle piante superiori a fiore coltivate e selvatiche. Senza l’opera dell’ape, l’ambiente si degraderebbe irrimediabilmente perdendo la sua più grande ricchezza, cioè la biodiversità! Non si fa quindi riferimento soltanto all’impollinazione delle colture agricole, con tutte le implicazioni produttive ed economiche conosciute, in quanto il ruolo delle api trascende ampiamente il quadro agricolo: la fecondazione delle piante selvatiche riveste un’importanza assai superiore a quella delle piante coltivate, seppure l’azione sia molto più discreta e quasi impossibile da quantificare in cifre.
Le api sono degli ottimi indicatori biologici perché segnalano il danno chimico dell'ambiente in cui vivono, attraverso fondamentalmente due segnali: l'alta mortalità nel caso di sostanze per loro letali come i pesticidi, e attraverso i residui che si possono riscontrare nei loro corpi o in altre matrici apistiche, nel caso di sostanze non letali e di altri agenti inquinanti come i metalli pesanti, gli IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) e i radionuclidi, rilevati tramite analisi di laboratorio. Molte caratteristiche etologiche e morfologiche fanno dell’ape un buon rivelatore ecologico: è facile da allevare; è un organismo quasi ubiquitario; non ha grandi esigenze alimentari; ha il corpo relativamente coperto di peli che la rendono particolarmente adatta a intercettare materiali e sostanze con cui entra in contatto durante il volo; è altamente sensibile alla maggior parte dei prodotti antiparassitari che possono essere rilevati quando sono sparsi impropriamente nell’ambiente (per esempio durante la fioritura, in presenza di flora spontanea, in presenza di vento); l’alto tasso di riproduzione e la durata della vita media, relativamente corta, induce una veloce e continua rigenerazione nell’alveare; ha un’alta mobilità e un ampio raggio di volo che permette di controllare una vasta zona (circa 7 km2); effettua numerosi prelievi giornalieri; perlustra tutti i settori ambientali (terreno, vegetazione, acqua, aria); ha la capacità di riportare in alveare materiali esterni di varia natura e di immagazzinarli secondo criteri controllabili; necessità di costi di gestione estremamente contenuti, specialmente in rapporto al grande numero di campionamenti effettuati.
Per questi motivi i dati rilevati dalle api non sono relativi solo all’aria ma all’intero ambiente in cui vivono. Le matrici apistiche che vengono prelevate variano a seconda del contaminante che bisogna rilevare, alle sue fonti di emissione e al suo destino ambientale.
Intorno al COVA l’anno scorso avevamo installato tre postazioni di biomonitoraggio, una nella zona industriale di Viggiano, una a Montemurro e una a Grumento, costituite ognuna da tre alveari, più un quarto di supporto. Mentre quest’anno se ne sono aggiunte altre due, a Spinoso e a Marsico Nuovo, per un totale di 35 km2 di territorio della Val d’Agri esplorato dalle nostre api. Il gruppo di ricerca della FEEM, in collaborazione con Pancrazio Benevento e Filomena Montemurro dell’Associazione Apicoltori Lucani, cura la parte più delicata del progetto: periodicamente effettuano prelievi di varie matrici apistiche opportunamente scelte per le attività che si svolgono nell’area industriale di Viggiano, per poi inviarle a un laboratorio indipendente per la ricerca di metalli pesanti e IPA.
Gli indicatori biologici come le api, definiti rappresentazioni sintetiche di realtà complesse, devono essere considerati come esseri viventi e non come strumenti tecnologici. In effetti ogni rilevatore di inquinamento (chimico-fisico, elettronico o biologico) fornisce una sua visione dello stato di compromissione del territorio indagato che può anche non collimare con gli altri. A differenza delle analisi chimico-fisiche, i bioindicatori possiedono una sorta di memoria del danno inflitto dal contaminante o degli effetti sinergici di più contaminanti. Quindi possiamo dire che probabilmente è il monitoraggio tecnologico che non sfigura rispetto a quello (biologico) delle api. I due metodi possono però ottimamente integrarsi a vicenda, in quanto forniscono l’uno un’alta precisione analitica e l’altro un’alta capacità di sintesi.
Dal 1980, quando con il mio maestro, Giorgio Celli, abbiamo iniziato a studiare l’impiego delle api nel biomonitoraggio ambientale, sono stati moltissimi i comprensori agricoli, industriali e urbani sparsi in tutta Italia in cui abbiamo applicato il metodo per mettere in luce la presenza di vari inquinanti. Dall’Emilia-Romagna siamo andati in Toscana, Umbria, Lombardia, Piemonte, Friuli, Lazio, Molise, Marche, Veneto, Trentino, Campania e anche in Basilicata. Nella vostra Regione abbiamo collaborato per diversi anni con l’Alsia, per il biomonitoraggio dei pesticidi nel metapontino, e con il Comune di Rotondella, per il biomonitoraggio dei radionuclidi intorno al Centro Enea della Trisaia, uno dei siti italiani di stoccaggio delle scorie radioattive provenienti dalle nostre centrali nucleari dismesse.