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L’altra faccia del “south working”

Molti dipendenti meridionali delle aziende del Nord sono tornati a casa e lavorano da remoto. Ma questo fenomeno rischia di avere un effetto boomerang creando nuova disoccupazione.

di Andrea Di Consoli
25 settembre 2020
6 min di lettura
di Andrea Di Consoli
25 settembre 2020
6 min di lettura

Un argomento di cui si parla sempre più spesso è il cosiddetto “south working”. Con questa espressione inglese si definisce un processo socio-economico in atto in questo momento in Italia, ovvero il trasferimento al Sud di migliaia di impiegati meridionali delle aziende del Nord che continuano a lavorare per queste aziende ma in smartworking. Questa dinamica non è ancora ben fotografata sociologicamente, anche perché è in pieno svolgimento, ma sarebbe comunque il caso, soprattutto in questa fase, che gli studi statistici e le indagini demografiche subissero un’accelerazione e un rafforzamento, perché mai come adesso è necessario avere continue fotografie dei cambiamenti socio-economici in atto.  

I dubbi sul fenomeno

Dunque, sta accadendo questo: dopo il lockdown, decine di migliaia di impiegati delle aziende del Nord hanno cominciato a lavorare da remoto – a parità di stipendio – dalle loro case d’origine del Sud. Premetto che la situazione è un po’ confusa, perché l’Anci sostiene che i paesi del Sud sono ancor più di prima a rischio spopolamento, mentre coloro che analizzano il “south working” registrano decine di migliaia di “ritorni” nel meridione. Evidentemente coloro che tornano sono ancora residenti al Nord, e questo rende ancora più problematica la messa a fuoco di questo nuovo processo in atto. Il “south working” è indubbiamente una buona notizia, ma apre non pochi interrogativi, e qualche non inedita polemica. Penso alle gabbie salariali. Sì, perché qualcuno sostiene che trasferendosi al Sud – magari nella casa di proprietà dei genitori – gli impiegati, pagati dalle aziende del Nord, abbiano minori spese, e perciò sarebbe auspicabile un abbassamento del loro stipendio, adeguandolo al costo della vita del luogo in cui sono ritornati. Il tema delle gabbie salariali non è nuovo, e io credo che sia irriproponibile, anche perché il costo della vita non varia cartesianamente da Nord a Sud ma in base ad altri parametri, a macchia di leopardo. Per esempio il costo della vita a Napoli e a Bari è a livelli nordici, mentre nei piccoli paesi è vero sì che il costo della vita è più basso (soprattutto nel comparto immobiliare) ma è anche vero che i servizi sono spesso distanti (e perciò più costosi) e le privazioni non poche, anche di natura sociale e culturale. Quindi io penso che aprire una discussione sulle gabbie salariali faccia solo perdere tempo, in questo frangente. 

Conseguenze della crisi al Nord

Interessante è invece analizzare il fenomeno del “south working” senza pregiudizi, ovvero senza trionfalismi, perché è sì probabile che nei prossimi mesi il Sud registrerà un incremento demografico e un aumento dei consumi complessivi, ma questo dato potrebbe essere temporaneo, una sorta di “bolla” pronta a esplodere nell’arco di qualche anno. Perché faccio questo ragionamento? Perché purtroppo non ho mai creduto alla teoria della “botte piena e della moglie ubriaca”, e proverò a motivarlo con delle argomentazioni spero ragionevoli. 

Le decine di migliaia di impiegati che sono rimasti al Sud in smartworking pagati dalle aziende del Nord, in apparenza pensano di aver trovato la soluzione a tutti i loro problemi: vivono con stipendi nordici a casa loro, tra i loro cari, in un ambiente amichevole e a dimensione umana. Ma c’è solo un problema: questo travaso demografico sta creando un depauperamento delle aree urbane del Nord, riducendo i consumi (e la ricchezza complessiva, dunque la produttività) e aprendo una grave crisi del settore immobiliare, che è fortemente sostenuto dalla domanda di alloggi dei meridionali in trasferta saltuaria o permanente.  

In questo scenario è chiaro che il Nord attraversà una crisi occupazionale, e a saltare potrebbero essere proprio coloro che lavorano “da remoto” da Sud. Perché dico questo? Perché immagino questo effetto-boomerang? Semplice: perché non credo nello smartworking come sistema strutturale di organizzazione del lavoro. Lavorare “in sede” insieme agli altri, confrontarsi, annusare il clima, discutere scelte e soluzioni, vivere fisicamente un’azienda sono tutti aspetti fondamentali, perché un isolamento professionale procrastinato troppo a lungo rischia di creare una sorta di autismo professionale, per cui si diventa automi ignari dello spirito aziendale, aspetto fondamentale del ciclo vitale di un organismo economico organizzato. Vivere in un contesto “rilassato”, ignorando le tensioni e il clima di un’azienda distante anche mille chilometri, rende l’impiegato sempre più avulso dal contesto aziendale, e questo con il tempo lo indebolisce, rendendolo sempre più marginale e dunque sostituibile, se non addirittura licenziabile. 

Effetti nel lungo periodo

Da subito ho sostenuto che la crisi economica causata dal Covid-19 avrebbe riportato al Sud molti meridionali rimasti senza lavoro. E, paradossalmente, questo travaso demografico, benché più doloroso, mi pare molto più fruttuoso del “south working”, perché mette chi ritorna nella condizione di doversi inventare qualcosa ma anche di condividere con l’ambiente di origine le competenze professionali acquisite altrove. Il “south working”, invece, ha sì un effetto benefico nel breve periodo – aumento demografico, magari non “ufficiale”, e aumento dei consumi (anche se quest’ultimo sarei cauto, perché gli italiani stanno rispondendo a questa crisi risparmiando di più, riducendo i consumi) – ma sul lungo periodo potrebbe aumentare la disoccupazione e determinare una nuova ondata migratoria a condizioni molto più sfavorevoli rispetto a quelle di partenza. L’idea di lavorare da Sud per le aziende del Nord è un paradiso che non può durare, anche perché l’economia del Nord vive anche grazie ai consumi delle centinaia di migliaia di meridionali che ogni giorno al Nord pagano un affitto, fanno la spesa, escono la sera, e così via.

La vera domanda che mi pongo è invece questa: in che modo le classi dirigenti meridionali stanno analizzando il fenomeno complessivo del “ritorno” al Sud? Con quali strumenti? È possibile immaginare politiche d’incentivo per chi ritorna, così da rendere stabile e duraturo questo probabile incremento demografico? Ma nessuno s’illuda: in economia non esistono né scorciatoie né paradisi. E se Atene piange, nessuno s’illuda che Sparta possa sorridere.

L’autore: Andrea Di Consoli

Scrittore, giornalista e critico letterario italiano