Nel 2002 i cittadini lucani residenti ammontavano a 597.468 persone, quelli del 2019 a 562.869. La popolazione invecchia, le nascite diminuiscono, cresce l’emigrazione: insomma, la Basilicata si spopola anno dopo anno. Tutto questo su un territorio molto grande (altro che “piccola Basilicata”: il territorio lucano è il doppio di quello ligure), che presenta numerose difficoltà nell’erogare servizi uniformemente su un territorio variegato e discontinuo morfologicamente e demograficamente. Cosa accadrà però se la popolazione diminuirà ancora? Accadrà questo: che sarà sempre più difficile garantire i servizi sul territorio (vista la popolazione disordinatamente sparpagliata qua e là nei 131 paesi e nelle migliaia di contrade bassamente popolate), che ad abitare la Basilicata saranno principalmente pensionati e impiegati pubblici, che le attività imprenditoriali diminuiranno (poiché il mercato interno sarà sempre più povero), che il territorio sarà sempre meno presidiato (la conseguenza è l’abbandono delle terre e il rischio idro-geologico) e che la Basilicata sarà sempre più irrilevante da un punto di vista politico, e dunque aggredibile da eventuali riforme istituzionali e nei trasferimenti finanziari.
Nessuno ha la bacchetta magica per invertire il trend negativo, ma il compito della politica, degli studiosi e degli economisti è provare a rispondere a questa domanda: com’è possibile arrestare il flusso migratorio e, addirittura, far crescere la popolazione lucana? La risposta è soltanto una: creando lavoro. Tutte le altre risposte (spesso di natura bucolica o consolatoria; o addirittura di natura identitaria, del tipo “meglio pane e cipolla ma a casa mia”) non risultano efficaci nella popolazione attiva, perché la società dei consumi non permette di mettere su famiglia in assenza di due redditi familiari e di livelli minimi di benessere economico. Non dico che lo spopolamento non si possa arginare anche con operazioni umanistiche, come quelle condotte con grande generosità e intelligenza dal paesologo Franco Arminio, ma operazioni di questo genere sono, secondo me, operazioni politico-culturali di seconda battuta, che permettono uno sguardo nuovo sulla realtà delle “aree interne” solo dopo aver risolto il primo bisogno: quello, appunto, del lavoro.
La domanda che dovremmo porci è: come mai manca il lavoro in Basilicata? Le ragioni sono tante: la distanza dai mercati, la scarsa cultura imprenditoriale media, la debolezza del mercato interno (che dovrebbe essere il primo livello di supporto a un tessuto imprenditoriale locale), l’assenza di un sistema creditizio forte, l’eccessiva politicizzazione della società, una mentalità fortemente segnata dal mito del posto fisso e dell’impiego nella pubblica amministrazione e un’idea perniciosa di Stato a cui delegare la risoluzione di tutti i problemi della società.
Gli ostacoli, dunque, sono sia di natura territoriale che di natura antropologica. Eppure fare impresa è possibile, anche di livello internazionale, come dimostra lo stabilimento Fca di Melfi e il comparto petrolifero della Val d’Agri. Tuttavia la popolazione guarda ancora con sospetto a modelli di sviluppo di natura industriale, e questo è un grave limite culturale, che condanna la popolazione lucana all’emigrazione e a un tasso di crescita tra i più bassi d’Italia.
Quando osservo le mosse dei dirigenti apicali della Regione io mi domando sempre: cosa farei al loro posto? Ecco, io al loro posto chiederei un aiuto a chi queste cose le sa fare (imprenditori, management delle grandi multinazionali, Confindustria, investitori). Proverei a dialogare con loro permanentemente per capire come e dove è possibile creare nuovi stabilimenti industriali (le aree protette sono fin troppe, quindi eviterei il solito discorso sulla tutela ambientale, che spesso diventa un discorso di pura irresponsabilità). Ma senza diffidenze. Anzi, consapevoli che ogni imprenditore che decide di investire in Basilicata dà un contributo concreto all’arresto di quello spopolamento che sta depauperando la vitalità della Basilicata. Sindacati, politica, associazioni di categoria, studiosi: tutti dovrebbero lavorare in questa direzione. Senza trascurare il lato culturale, perché diffondere una diversa cultura del lavoro e dello sviluppo, benché esponga a sospetti di ogni genere, è premessa fondamentale di questa necessaria e urgente inversione di tendenza.
Ma perché un’azienda, un imprenditore, una società, una multinazionale dovrebbero investire in Basilicata? Ecco una cosa che si dice poco, e che è importantissima: conviene investire qui perché il capitale umano è straordinario. Lealtà, capacità, dedizione, umiltà, serietà: i lavoratori lucani hanno indici di affidabilità molto alti. Perciò, anziché preparare i giovani al risentimento, al disimpegno, alla sindacalizzazione rabbiosa, all’anti-industrialismo permanente, allo statalismo parassitario, bisognerebbe valorizzare la loro capacità di lavoro, di dedizione, di risoluzione dei conflitti, perché è questo ciò che li rende così richiesti in ogni dove (ma non, purtroppo, nella loro terra). Non mi arrendo a una Basilicata come paradiso dei pensionati o dei ricchi in cerca di emozioni bucoliche. Sogno una Basilicata che cresce, che incrementa la propria popolazione, che offre servizi e beni culturali come le altre regioni del centro-nord. Anche perché sto notando un fenomeno molto preoccupante, che non aiuta la risoluzione del problema della decrescita e dello spopolamento. Un tempo chi emigrava rimaneva legato alla Basilicata da un vincolo sentimentale molto forte, dal sogno di ritornare: nelle nuove generazioni questo vincolo sentimentale è sempre meno forte, e spesso chi va via lo fa per sempre, senza nessun magone. Un tempo si partiva con il sogno di ritornare: oggi si sogna di partire e basta. E questo fa capire il fallimento di quelle politiche culturali regressive e stataliste che in apparenza sembrano fondarsi su buoni sentimenti, ma che in realtà non fanno altro che accrescere la rabbia in chi non trova concretamente nessuna risposta ai propri bisogni di crescita lavorativa, culturale ed economica.
Chi vuole bene alla Basilicata si deve scervellare su temi quali il lavoro, lo sviluppo, la crescita. Chi invece lancia crociate contro le logiche e le leggi dello sviluppo (uno sviluppo sostenibile, moderno, innovativo) è complice della crescente irrilevanza della Basilicata. Ecco perché anche gli intellettuali devono fare la propria parte, troncando con una narrazione tutta letteraria e suggestiva e totalmente priva di realismo politico.
L’autore: Andrea Di Consoli
Scrittore, giornalista e critico letterario italiano