Le api contribuiscono alla conservazione del territorio e sono fondamentali per il monitoraggio dell’habitat naturale. Un esempio concreto è il progetto realizzato ad Agrivanda, in Val d’Agri
L’ape contribuisce alla tutela, conservazione e restaurazione del territorio, nella misura della sua opera di impollinazione (che rientra nei servizi ecosistemici, cioè opere fondamentali alla vita) per la maggioranza delle piante superiori (75-80%) a fiore coltivate e selvatiche. Senza l’opera dell’ape l’ambiente si degraderebbe irrimediabilmente perdendo la sua più grande ricchezza, cioè la biodiversità!
Non si fa quindi riferimento soltanto all’impollinazione delle colture agricole, con tutte le implicazioni produttive ed economiche conosciute, in quanto la fecondazione delle piante selvatiche riveste un’importanza assai superiore a quella delle piante coltivate, seppure l’azione sia molto più discreta e quasi impossibile da quantificare in cifre. Le api, in questo loro immenso lavoro di impollinazione, raccolgono nell’ambiente diverse sostanze che accumulano nel loro alveare: principalmente nettare, che poi diventerà miele, ma anche polline, melata, propoli e acqua. L’apicoltore le alleva e le accudisce prelevando, ogni tanto, il miele e il polline immagazzinato in eccesso rispetto al bisogno delle api. Per questa sua frenetica attività di bottinamento, e per il fatto di evidenziare la presenza di sostanze inquinanti, eventualmente presenti nell’ambiente, con mortalità, spopolamenti, alterazioni comportamentali e/o accumulandole nel suo corpo o nei prodotti dell’alveare, l’ape è considerata un ottimo bioindicatore.
Vi sono altre caratteristiche etologiche e morfologiche che fanno dell’ape un buon rivelatore ecologico, come la presenza di peluria sul corpo che la rendono particolarmente adatta ad intercettare materiali e sostanze con cui entra in contatto durante il volo o l’attività di bottinamento, l’alto tasso di riproduzione e la durata della vita media, relativamente corta, che induce una veloce e continua rigenerazione nell’alveare, un’alta mobilità e un ampio raggio di volo che permette di controllare una vasta zona (circa 7 km2 attorno al proprio alveare) e di perlustrare tutti i settori ambientali: suolo, vegetazione, acqua e aria, i numerosissimi viaggi giornalieri per prelevare diversi materiali di cui ha bisogno, ecc. Per questi motivi, i dati rilevati dalle api non sono relativi solo all’aria ma all’intero ambiente in cui vivono.
Gli indicatori biologici come le api, definiti rappresentazioni sintetiche di realtà complesse, devono essere considerati come esseri viventi e non come strumenti tecnologici. In effetti ogni rilevatore di inquinamento (chimico-fisico, elettronico o biologico) fornisce una sua visione dello stato di compromissione del territorio indagato che può anche non collimare con gli altri. A differenza delle analisi chimico-fisiche, i bioindicatori possiedono una sorta di memoria del danno inflitto dal contaminante o degli effetti sinergici di più contaminanti. I due metodi possono però ottimamente integrarsi a vicenda, in quanto forniscono l’uno un’alta precisione analitica e l’altro un’alta capacità di sintesi.
Il biomonitoraggio non utilizza gli organismi né come centraline, né fornisce stime di qualità dell’aria: esso misura deviazioni da condizioni normali di componenti degli ecosistemi reattivi all’inquinamento, particolarmente utili per stimare gli effetti combinati di più inquinanti, capaci di agire sinergicamente sulla componente biotica. Le tecniche di biomonitoraggio permettono di identificare lo stato di alcuni parametri ambientali sulla base degli effetti da essi indotti su organismi sensibili come i bioindicatori.
L’area oggetto dello studio di biomonitoraggio tramite le api è la Val d’Agri, situata in Basilicata (Italia), compresa tra i monti Sirino e Volturino e prende il nome dal Fiume Agri che ne attraversa l’intero territorio. È sede del più vasto giacimento on-shore dell’Europa Meridionale, la cui concessione è affidata all’Eni, che detiene la quota di maggioranza. Le potenziali fonti di impatto, dirette e indirette, oltre ai 24 pozzi di estrazione petrolifera eroganti, un pozzo per la reiniezione delle acque di strato e un impianto per il trattamento di idro-desolforazione del greggio (Centro Olio Val d’Agri), includono le emissioni da traffico veicolare, la combustione di biomassa, gli impianti di depurazione di reflui civili ed uno per i reflui industriali, le aziende zootecniche e agricole, un’industria per la produzione di film plastici ed altre di vario genere. La maggior parte delle fonti di impatto provengono dalla Zona Industriale di Viggiano. Il progetto di biomonitoraggio con le api, che utilizza come matrici le api bottinatrici, la cera e il miele “giovane”, cioè quello appena importato dalle bottinatrici nell’alveare e non ancora maturo per essere destinato all’alimentazione, è iniziato nel 2019, grazie ad una collaborazione fra FEEM (Fondazione Eni Enrico Mattei) e DISTAL-Unibo (Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentali dell’Università di Bologna). Inizialmente, le postazioni di biomonitoraggio erano tre (Viggiano-Zona Industriale, Montemurro e Grumento Nova), costituite da tre alveari ciascuna più un alveare di “scorta”, ma già dal 2020, nonostante la crisi pandemica, sono state portate a cinque, aggiungendo le postazioni di Spinoso e Marsico Nuovo, e a sette nel 2023 con l’inserimento di Calvello e Paterno. Quindi, dai circa 21 km2 esplorati dalle api nel primo anno si è passati ai quasi 50 km2 di territorio valdagrino esplorato nel 2023. Il supporto apistico, fondamentale in questo tipo di indagine, è stato garantito da Pancrazio Benevento e Filomena Montemurro dell’Associazione Apicoltori Lucani. Durante il periodo sperimentale sono stati effettuati prelievi mensili delle matrici apistiche prima elencate, per poi inviarle ad un laboratorio indipendente per la ricerca di metalli pesanti e IPA.
Ma il progetto in Val D’Agri non è l’unico studio che ha visto protagoniste le api in Basilicata. Il DISTAL-Unibo ha collaborato per diversi anni con l’ALSIA, per il biomonitoraggio dei pesticidi nel metapontino, e con il Comune di Rotondella, per il controllo dei radionuclidi presso l’Enea Centro Ricerche Trisaia. In Basilicata erano inoltre presenti diverse postazioni delle reti nazionali di monitoraggio apistico “ApeNet” (2009-2011) e “BeeNet” (2012-2014), progetti ministeriali volti per identificare le cause delle mortalità delle api e degli spopolamenti degli alveari in Italia, in cui il DISTAL-Unibo era uno degli Enti coordinatori. L’impiego delle api come bioindicatori per la valutazione della qualità dell’ambiente è oggi molto diffuso. Sarebbe però molto utile che i diversi progetti di biomonitoraggio ambientale con le api adottassero metodologie comuni di indagine, sia per poter confrontare i dati e, soprattutto, per interpretare meglio i risultati.
*Laureato in Scienze Agrarie, lavora presso l’area di Entomologia del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari (DISTAL) dell’Università di Bologna.