Oggi la vita è migliorata e si è allungata. Il rovescio della medaglia è che siamo tanti e la Terra ne risente. Cosa fare? Analisi e considerazioni di uno scrittore
Report incisivi e autorevoli, ogni anno, annunciano considerevoli perdite di biodiversità, si riducono di molti punti in percentuale invertebrati, vertebrati, insetti, uccelli, mammiferi, tanto che si preannuncia da qui al 2100 una sesta estinzione di massa, questa di origine antropica. L’apocalisse, si sa, è un elemento narrativo abbastanza diffuso, anche perché illumina di un’aurea profetica chi ne fa uso; tuttavia, i numeri non mentono e dunque è interessante riflettere su alcuni dilemmi (contraddizioni) che questi numeri propongono.
Se è vero che molte specie diminuiscono di numero è anche vero che la nostra specie aumenta. I sapiens in era pre/agricola arrivavano a toccare punte massime di 5 milioni, ciò voleva dire che le risorse di cui facevamo uso bastavano a soddisfare le esigenze di metà degli abitanti della Lombardia oggi. Con la rivoluzione agricola, siamo cresciuti di numero, e nell’anno Mille abbiamo toccato la punta di 500 milioni di persone, la maggior parte delle quali abitava in Nord Africa e in Oriente, pochi erano gli Europei, forse 25/30 milioni. Alla fine delle campagne Napoleoniche eravamo un miliardo, di cui almeno l’85% contadini, analfabeti, poveri. Il restante erano prelati, aristocratici, mercanti, re ed imperatori. Nel 1924 siamo arrivati a due miliardi e nel 1960 a tre. Sono nato nel 1966, c’erano 4,4 miliardi di persone, di cui un miliardo benestante (cioè che potevamo permettersi la macchina) e due miliardi di persone povere (a stento risparmiavano per comprarsi le scarpe). Nel 1974 ho fatto la mia prima vacanza a Rimini e c’erano già 5 miliardi di persone. Nel 1987, vacanza a Cambridge, sei miliardi, nel 1999 non ho fatto niente ed eravamo sei, nel 2010 sette e ora siamo a più di otto miliardi di persone (di cui sono 700 milioni sono affamati cronici, in discesa secondo la FAO), arriveremo a 10 o 11 da qui al 2100.
La responsabilità di questa crescita si deve in primo luogo alla rivoluzione verde, poi ai vaccini, agli antibiotici, alle pratiche igieniche e alle fognature. È interessante notare come queste novità che hanno reso il XX secolo un secolo interessante abbiano ridotto, in buona parte del mondo, quasi a zero la mortalità infantile (che era uno su tre/uno su cinque nel Paleolitico ed era ancora uno su tre/ uno su cinque in molte parti del mondo nel 1900) e alzato la vita media. Per esempio, in Italia siamo a 83 anni (era intorno ai 35 anni nel Neolitico e intorno ai 35 anni nel 1900, millenni in cui non è successo nulla).
Nella sostanza abbiamo mangiato meglio (grazie a tre innovazioni: chimica, meccanizzazione, miglioramento genetico). Proteggendosi dalla fame, il nostro apparato immunitario si è rafforzato, poi vaccini e antibiotici hanno fatto il resto (un bambino lievemente malnutrito ha il doppio di probabilità di morire di uno ben nutrito, mentre un bambino con grave malnutrizione ha otto possibilità in più di morire rispetto a uno ben nutrito).
È giusto, sacrosanto, quando si affronta lo spinoso tema della biodiversità far notare la contraddizione: abbiamo realizzato un sogno, salvare i bambini. La morte dei bambini ha funestato le generazioni precedenti e, allo stesso modo, fame, carestie e malattie hanno rovinato la vita ai nostri avi. Morte prematura, fame, malattie ecc. hanno formato quella variabile indipendente che ha livellato la popolazione mondiale, e non solo dal punto di vista demografico, ma anche rispetto alla qualità della vita.
Ma poi è arrivato il XX secolo e il mondo è cambiato. I bambini non sono morti, anzi, sono cresciuti e hanno preteso una buona qualità della vita (istruzione, consumi, viaggi, benessere insomma) e per farlo hanno consumato e consumano ancora e dissipano energia e risorse. Occupano spazi, abusano di nicchie evolutive, intensificano la produzione e non solo quella agricola. La contraddizione si fa sentire: il sogno realizzato - abbattere la mortalità infantile - si è trasformato in una trappola, troppe persone che non muoiono o che muoiono tardi. Quindi, quando si recita in coro ‘dobbiamo salvarci’, dovremmo avere il coraggio di chiederci ‘sì ma in quanti?’ Oppure, sì, d’accordo, salviamoci ma garantendo quali parametri? Rispondere a queste domande significa anche prendere sul serio la questione biodiversità, cioè decidere cosa siamo disposti a sacrificare per mantenere i nostri passi (otto/dieci miliardi di passi impattanti) a lungo su questa terra.
C’è un altro aspetto paradossale che tuttavia conviene affrontare: l’ecologismo, l’ambientalismo, la coscienza della biodiversità sono dimensioni oggi indispensabili ma figlie del capitalismo avanzato. Se sei povero non sei ambientalista, non puoi permettertelo, se hai fame uccidi e mangi. Solo ora, infatti, ci permettiamo - giustamente - una maggiore sensibilità verso gli animali. Nel passato la nostra coscienza ambientale era scarsa e infatti di danni ne abbiamo fatti. Quella che ora chiamiamo con orgoglio tipica macchia mediterranea in Calabria non è affatto tipica, anzi è quello che resta dopo la distruzione boschiva operata durante il Medioevo, quando serviva legno per le navi. Nemmeno il tipico paesaggio sardo è tipico: la Sardegna fino all’Ottocento era ricoperta per l’80% da boschi, tutti tagliati (dai Piemontesi) per ottenere legna per la ferrovia. La verità paradossale? Non appena raggiungi un livello di benessere soddisfacente (benessere ottenuto però sacrificando risorse) ti poni il problema dell’ecologia. Come risolvere il paradosso? Probabilmente non è risolvibile del tutto; per andare avanti, per vivere e vivere tutti quanti, perderemo qualcosa. Possiamo tuttavia provare a occuparci di biodiversità, in due modi. Primo: producendo biodiversità. Per esempio, la biodiversità all’interno delle specie agrarie grazie alla genetica è aumentata: nelle banche del germoplasma sono conservate 800 mila varietà di frumento, madre natura non avrebbe saputo fare di meglio. Tutta la biodiversità di frutti che ora non vengono più coltivati sono in realtà stati prodotti nel Novecento, si possono recuperare e modernizzare, perché alcuni frutti non sono più consumati in quanto non sempre presentavano caratteristiche utili alla coltivazione. Oppure occupandosi delle terre lasciate libere, delle miriadi di cave che possono trasformarsi in oasi di biodiversità. Discorso simile per i boschi. In Italia i boschi sono aumentati, ma siccome nessuno se ne occupa, alla fine sono diventati boscaglia, spesso impenetrabile, insomma, si può fare di meglio. Ma si produce biodiversità anche innovando, e abbiamo bisogno ora più che mai di innovare in tutti i settori, energia, industria, agricoltura, turismo. Riducendo il peso della nostra smania di vivere, faremo vivere anche altri esseri.
L’altro modo è studiare la biodiversità. Spesso sulla biodiversità si opera uno studio parziale, c’è un bias estetico, alcune piante o animali sono più studiati di altri perché sono più belli. Studiare la biodiversità, capire l’effetto domino che ogni volta si verifica quando occupiamo una nicchia preesistente, oppure quando arriva una specie aliena e si impossessa di un habitat, oppure se cambia la temperatura, occuparsi di queste dinamiche è il miglior modo per capire cosa toccare, cosa aggiustare e come correre ai ripari qualora i nostri passi risultassero molto impattanti.
Post scriptum: poi a me piacerebbe costruire un’oasi del pessimismo, perché il pessimismo, è vero, è debole nella speranza ma è forte nella consolazione. Siccome siamo umani e feriti e le nostre ferite causano rabbia e la rabbia violenza e la violenza si abbatte sul mondo, ripararsi di tanto in tanto in un’oasi del pessimismo, significa anche capire le nostre ferite e porre rimedio alle nostre sfuriate, sugli altri, sul mondo e contro noi stessi. Significa sentire la consolazione che solo la biodiversità ci può dare.