Le nuove generazioni, Potenza Città dei Giovani 2024, il post pandemia. Ne parliamo con Raffaele Savonardo, professore di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all’Università Federico II di Napoli
“Ascoltare i giovani”. È questo il consiglio di Raffaele Savonardo, professore di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all’Università Federico II di Napoli e Coordinatore scientifico dell’Osservatorio Territoriale Giovani, che per Orizzonti ha raccontato il percorso di Napoli per il titolo di Città Italiana dei Giovani 2023 e la condizione delle nuove generazioni in un contesto di ansia e sfiducia verso un futuro incerto.
Napoli ha appena passato il testimone di Città dei Giovani a Potenza. Il 2023 è stato un anno intenso, ricco di iniziative. Ci dice qual è stato il percorso che ha portato alla candidatura e come sono stati coinvolti i giovani?
Napoli - con l’assessorato alle Politiche giovanili e in collaborazione con l’Osservatorio giovani dell’Università Federico II, che coordino ormai da vent’anni - ha risposto già due anni fa alla call del Consiglio Nazionale Giovani ma siamo arrivati secondi. L’anno scorso, poi, ci abbiamo riprovato - riuscendoci - con un progetto più dettagliato, puntuale e rispondente ai requisiti del bando. Sin dall’inizio noi dell’Osservatorio abbiamo condiviso questo percorso con l’assessora Chiara Marciani e abbiamo scritto insieme il progetto “Giovani Onlife - La voce della Next Generation”.
Il progetto prevedeva, cosa che poi abbiamo realizzato, una partecipazione attiva dei giovani alla vita pubblica, sia con strumenti digitali che in contesti reali di confronto, su temi rilevanti come l’ambiente, la legalità, la creatività, la sostenibilità, il lavoro, le competenze… temi trasversali, e non soltanto dell’universo giovanile. Abbiamo quindi cercato di coinvolgere le nuove generazioni in un dibattito pubblico di confronto non soltanto con esperti, ma soprattutto fra giovani, con i giovani e con le associazioni di riferimento. Contestualmente, l’assessora ha deciso di avviare le procedure per costruire il Forum dei giovani, che Napoli non aveva ancora avuto. Durante gli incontri e i seminari abbiamo ascoltato i candidati delle diverse liste del Forum: nella prima fase, insieme a docenti, esperti, associazioni, istituzioni, i giovani candidati si sono confrontati per discutere di temi centrali anche per lo sviluppo culturale e sociale della città, alla base della cittadinanza attiva.
Il confronto, continuato anche dopo le elezioni, ha permesso di arricchire il dibattito pubblico, non solo perché abbiamo avuto un’eco importante sulla stampa, sui media, ma anche perché siamo riusciti ad avere sempre delle dirette online: abbiamo utilizzato tutti gli strumenti, concreti e digitali, dalle dirette streaming alla condivisione sui social media. Questo è “Onlife”.
Abbiamo concluso il percorso con una festa, che ha coinvolto anche la band Lo Stato Sociale, con un dibattito e poi con un concerto. Un momento sia ludico che di riflessione critica, anche a partire dalle loro canzoni dedicate alla condizione giovanile.
“Onlife” potrebbe diventare un modello, per far sì che le idee e le proposte dei giovani siano ascoltate e valorizzate in materia di sfide ambientali, sociali ed economiche…
Esatto: è stato proprio questo il senso, abbiamo cercato di proporre un modello, un modello in cui i giovani sono chiamati a esprimersi sulle sorti della città, con i loro punti di vista, le loro riflessioni critiche e le proposte. Con la costituzione del Forum dei giovani questo sarà inevitabile, perché serve proprio a sollecitare le istituzioni su temi centrali per i giovani. Abbiamo fatto in modo, anche d’intesa con il sindaco, che il protagonismo dei giovani, e la loro partecipazione attiva nella sfera pubblica, potesse diventare un modello di riferimento della città.
La pandemia ha avuto un impatto significativo sui giovani. Stanchezza, sfiducia e ansia per il futuro sono parole che ricorrono spesso, pensiamo al report mondiale della GWI di un anno fa... Lei, in qualità di professore e coordinatore scientifico di un progetto rivolto ai giovani, ha avuto modo di osservare questa situazione da una prospettiva unica. Qual è la sua esperienza, in particolare per i giovani del Sud?
Il Covid è stato lo spartiacque tra il prima e il dopo. I giovani hanno un bisogno primario di abbracciarsi, di toccarsi, di avere contatti fisici. Con il Covid questo è diventato un problema serio anche nella crescita, soprattutto in un momento sensibile della formazione di un giovane, l’adolescenza o gli anni immediatamente successivi. È chiaro che già prima del Covid erano una generazione sempre connessa, anzi, iperconnessa. Da un lato potremmo dire che il Covid è stato un’occasione per sperimentare ai massimi sistemi le opportunità che le tecnologie digitali avevano già in qualche modo lasciato intravedere; dall’altro lato sono emersi anche tutti i gap del digital divide. Digital divide significa principalmente mancanza di strumenti per accedere alla cultura, alla conoscenza e all’informazione.
In ogni caso abbiamo vissuto un momento di grande dramma sociale, individuale e collettivo, tutti quanti noi. E le tecnologie digitali ci hanno permesso di rispondere alla crisi pandemica e di continuare a insegnare, lavorare e socializzare nonostante la separazione degli schermi. E questo ha creato un’accelerazione rilevante nell’innovazione tecnologica e ha spinto inevitabilmente la società contemporanea, la software culture, come la definisce Lev Manovich, o Platform Society, cioè una società che sempre di più si nutre del digitale e vive in una cultura digitale. Con il Covid questi strumenti sono diventati fondamentali e indispensabili. Possono sì creare dipendenza o generare distorsioni, ma si sono rivelati utili in questa tipologia di crisi.
Giovani e adulti hanno risposto allo stesso modo?
In genere, i giovani sono stati più capaci degli adulti a adottare le tecnologie digitali: siamo in un’epoca in cui per la prima volta i giovani insegnano agli adulti. Mi riferisco chiaramente alle competenze digitali che acquisiscono anche in modo più estemporaneo, esperienziale, degli adulti, e quindi trasferiscono l’uso delle tecnologie. Paradossalmente durante il Covid le nuove generazioni erano più competenti. È chiaro che tutto questo porta a delle distorsioni: il Covid ha generato dei drammi psicologici inevitabili e forse ha anche dei gap culturali che probabilmente non saranno colmati così facilmente, intendo proprio in termini di passaggio delle conoscenze, a scuola e all’università. In ogni caso, le nuove generazioni sanno rispondere all’imprevedibile più degli adulti.
Ci fa un bilancio finale del progetto “Onlife Giovani”?
Sì, Giovani Onlife è stata una sfida importante, non solo perché nel corso di questo progetto finalmente Napoli si è dotata di un Forum dei giovani. Credo sia stata anche un’occasione di sperimentare, con successo, un nuovo modello di partecipazione attiva alla vita pubblica dei giovani, da replicare anche nelle altre città. Sono felice di essere stato nella giuria del premio della Città dei giovani 2024 e di aver premiato Potenza, che ha mostrato l’idea di una città che può aprirsi ai giovani in modo innovativo, mettendo insieme linguaggi diversi - quelli del reale, del fisico, del concreto, ma anche quelli della connessione, dell’innovazione, del digitale. Con slogan anche molto convincenti, come “la Potenza dei giovani”, una bella formula per convincere, oltre che vincere.
Un consiglio che darebbe a Potenza in questo passaggio di testimone?
Quello di fare ciò che hanno previsto e progettato, ma farlo direttamente con le associazioni giovanili, con i giovani, farlo fare a loro con le giuste guide, ma ascoltando i giovani. Soltanto ascoltando i giovani possiamo guardare oltre, verso il futuro.