L’anno prossimo si celebreranno due anniversari molto attesi: i cento anni dalla nascita e i settant’anni dalla morte dello scrittore. Una figura dibattuta, che però non va strumentalizzata.
Non so se sia davvero possibile estrarre, da ciò che si sa della concreta attività politica e amministrativa, nonché dai suoi scritti poetici e saggistici, una sistematica e coerente dottrina politica di Rocco Scotellaro, del quale l’anno prossimo si celebreranno due anniversari molto attesi: i cento anni dalla nascita e i settant’anni dalla morte. Sicuramente risultano chiari e incontrovertibili il suo impegno in favore dei contadini, un’idea assai concreta di democrazia partecipata e un contributo fondamentale nel processo di formazione dell’occupazione delle terre e di avviamento della Riforma agraria. Risultano altrettanto evidenti, benché di maggiore complessità storiografica, i suoi rapporti conflittuali con la Democrazia cristiana e con un pezzo del mondo comunista; ma questo non mi porterebbe mai a dire, per dirla con una parola diretta e franca, che Scotellaro fosse un riformista. Sono certo che lo sia stato, ma non ho davvero gli strumenti conoscitivi per escludere nella sua “ideologia” livelli populistici, come pure è stato detto da qualcuno, almeno in sede di critica letteraria (e penso alle pagine durissime ma assai lucide di Alberto Asor Rosa in “Scrittori e popolo”).
In attesa di una più puntuale disamina sull’argomento, che mi auguro possa avvenire proprio nell’anno delle celebrazioni, è assolutamente importante sottrarre Scotellaro – la sua opera, il suo impegno politico, la sua stessa icona leggendaria – a qualsiasi forma di strumentalizzazione politico-ideologica o di santificazione laica. Da sempre, infatti, Scotellaro viene raccontato – soprattutto in alcuni ambienti massimalisti, giustizialisti, iper-ambientalisti, anti-sistema – come un rivoluzionario, un denunciatore di malefatte, un arruffapopolo, un santo che vive con l’unica missione di riscattare gli ultimi. Una sorta, tanto per essere espliciti, di “grillino” ante-litteram. E questo è profondamente sbagliato, a mio avviso, perché Scotellaro aveva una cultura profonda e raffinata, che lo rendeva estremamente consapevole della complessità del pensiero politico e letterario.
C’è anche un altro ambiente che tende ad assimilare Scotellaro in maniera deformata, ed è quello dei neo-identitari neo-bucolici, cioè di quanti hanno maturato un mito esasperato dell’identità lucana, e che rifiutano sistematicamente tutto ciò che è modernità, contaminazione, ibridazione, liquidità, relativismo. Un ambiente, questo, che tende a gettare tutto nello stesso calderone, da Ninco Nanco a Scotellaro, purché a prevalere sia il “no”, l’opposizione, il vittimismo, il piagnisteo, la collera, la rabbia, la contrarietà come metodo, la diffidenza, l’aggressione pregiudiziale a qualsiasi forma di potere, fosse anche il più virtuoso. Strana terra, la Basilicata. Da un lato ha dato i natali a funzionari e a politici estremamente ligi e servili rispetto alle ritualità delle istituzioni e dei partiti; dall’altro ha partorito ribelli e demagoghi che si sono alimentati in malafede, per decenni, del mito nefasto del brigantaggio, fenomeno criminale e proto-mafioso troppo spesso interpretato, specialmente in ambienti marxisti, ma non solo, come processo di ribellione delle classi subalterne al sistema feudale. Questa divaricazione dei lucani rispetto al potere – da un lato, ripeto, i ligi e cerimoniosi funzionari, dall’altro i ribelli “scamiciati” – ha da sempre reso minoritaria la via riformistica, libertaria e liberale.
Nonostante un evidente impegno popolare e di lotta, Scotellaro non fu né un brigante né un difensore zelante dello Stato. Egli fu, concretamente, impegnato per il miglioramento delle condizioni esistenziali dei contadini, e a testimoniarlo, tanto per fare un esempio, c’è la costruzione dell’ospedale di Tricarico, che portò sollievo reale e non teorico ai malati della sua terra. Tutto questo, che ho difficoltà a definire riformista, ma che tale mi appare, va rimarcato non solo per amore di verità, ma per provare a disconnettere la nostra cultura dal mito della purezza identitaria, dall’abitudine al vittimismo rivendicazionista e dalla tentazione ribellistica di matrice neo-brigantesca, essendo il brigantaggio, qualora fosse davvero ascrivibile alla galassia storica delle rivolte di popolo, un “movimento” ambiguo, disordinato, disumano, sanguinario, inefficace, inconcludente e avventurista. Di Scotellaro bisogna parlare tanto - e dal punto di vista politico, e dal punto di vista sociologico, e dal punto di vista letterario. Ma senza retorica e senza automatismi ideologici o viscerali. Scotellaro non è un “Che” Guevara. E se qualcuno lo considera tale fa torto alla sua complessità, alla sua inquietudine e alla sua intelligenza. E al suo straordinario talento.