«Dopo il liceo che potevo fare?». Luca Cadei, quando Bennato scrisse la storia di Spugna che non aveva combinato niente all’università, fuori corso e con un futuro da dimenticare, era appena nato. A differenza del mozzo sfigato del rock di capitano Uncino, Luca si avviava a un futuro brillante dopo aver frequentato il liceo scientifico ed essersi laureato in Ingegneria al Politecnico di Milano concludendo gli esami in quattro anni e qualche mese. Un genietto, coi ricci biondi e gli occhi azzurri potrebbe essere anche un lucano figlio di Federico, da Melfi. Invece viene dal profondo nord, da Luino, un paesino in provincia di Varese (il paese di Dario Fo e Piero Chiara), a due passi dalla frontiera svizzera, sul lago Maggiore.
«I miei amici pensavano quasi tutti di andare a lavorare dall’altra parte, per noi è quasi istintivo, siamo al confine. Io sono un ingegnere energetico, ho 31 anni, ho avuto da sempre l’ambizione di rimanere nel mio Paese e di entrare nella più grande società che in Italia si occupa di energia»
Ed eccoti qua, in Eni, capo impianto al Cova. Come è andata?
«Ero all’università, alla triennale, condividevo un alloggio per studenti a Milano con il mio amico Marco. Il Politecnico di Milano ha un ottimo career service (tutti i miei compagni di corso sono occupati) e tramite questo servizio ci siamo imbattuti nella possibilità di una borsa di studio con Eni. Io non ero ancora laureato. Con la borsa di studio facemmo un Erasmus in Norvegia, Eni finanziò una tesi e un tirocinio. Ho concluso gli studi di ingegneria in anticipo, finendo tutti gli esami in poco più di quattro anni.. Sia io che il amico ora lavoriamo in Eni, lui è finito in Mozambico, dopo un esperienza in Congo, io in Basilicata».
È la tua prima esperienza?
«No, sono stato assunto nel 2015 dopo il tirocinio già per accedere al quale bisogna avere determinati requisiti, come per esempio l’ottima conoscenza dell’inglese e ovviamente il voto di laurea. Sono stato tre anni a San Donato dove ho svolto prevalentemente un lavoro di sviluppo di modelli di simulazione e tool digitali, con molte trasferte, anche all’estero. A Viggiano ero già venuto proprio durante una di queste trasferte. Poi mi hanno proposto di trasferirmi al Dime nel 2018. Vivo a Villa D’Agri».
Nostalgie?
«Ma no. La mia Luino è un piccolo paese, ci vogliono quasi 50 minuti per arrivare a Varese, un po’ come andare da qui a Potenza. Lavoro molto, nel nostro ambiente il Cova è associato a un lavoro di forte responsabilità ed è vero perché non c’è solo un lavoro tecnico professionale da svolgere ma anche un notevole impegno per spiegare alla popolazione locale cosa stiamo facendo e come lo stiamo facendo, quindi sei chiamato a scrivere note preventive, relazioni, fare videoconferenze. A dire il vero non mi aspettavo il freddo, avevo un’idea diversa del Sud, e neppure una dimensione molto riservata che ho trovato. In compenso d’estate è pieno di feste, l’aspetto positivo del campanilismo. La Basilicata è un grande investimento per la mia formazione e la mia esperienza. Lavorare al Cova è un punto qualificante del curriculum, all’interno della stessa Eni».
Perché? Qual è la differenza del Cova rispetto agli altri impianti?
«Questo è un centro olio di eccellenza da un punto di vista tecnologico, potrei descrivere tante specificità tecniche delle unità di processo che lo rendono unico al mondo. Ma credo che le persone che lavorano qui fanno la differenza».
Li chiama i ragazzi, sono i “quadristi” della sala controllo e monitoraggio, ognuno applicato a un “quadro” cioè a un monitor accesso su una parte dell’impianto per controllare i target point, cioè che tutto vada bene.
E sul “quadro” dell’ingegnere Cadei cosa c’è?
«C’è l’auto pilota del centro olio per l’ottimizzazione dei processi e per garantire l’asset integrity. Il Cova è un impianto totalmente digitalizzato, la gestione delle operazioni è veloce, dinamica e predittiva, con gli alert si interviene sullo stato dei principali fenomeni relativi all’asset. La grande forza che abbiamo è il pool di competenze integrate. Però io cammino anche molto, giro per il centro olio, i capi più anziani mi hanno insegnato che non basta guardare, servono molto anche tutti gli altri sensi. I piccoli segnali deboli che si raccolgono nei giri di campo servono e possono anticipare gli interventi. Una parte del mio lavoro è l’attesa e il monitoraggio continuo dei processi».
Qual è, in base alla tua esperienza, il valore che Eni ha dato alla Basilicata?
«Si è creato un comparto industriale serio, un distretto delle competenze, anche nell’indotto, che può essere esportato altrove. Qui sviluppiamo anche ricerca, innovazione, progetti avanzati soprattutto nel campo della sostenibilità e dell’efficienza energetica dei sistemi produttivi. Quindi c’è un doppio binario, una sfida notevole alla quale siamo chiamati a misurarci. C’è il centro olio e insieme guardiamo alla transizione energetica».
Insomma la Basilicata è stata una bella scoperta...
«Quando ero ancora a Milano uno dei miei vecchi responsabili periodicamente mi chiedeva: ti stiamo deludendo? Pensi di aver trovato qui quello che immaginavi? Posso rispondere che finora non ha avuto nessuna delusione, anzi, per me un grande orgoglio».