Re-generation Y-outh, un progetto nato tre anni fa e pensato per rovesciare gli stereotipi e dialogare con i giovani. Parla la fondatrice Giusy Sica, inserita da Forbes tra i 100 leader del futuro under 30.
Un think tank che riunisce tutte le categorie soggette a discriminazione: donne, under 30, meridionali. È Re-generation Y-outh, un progetto realizzato da Giusy Sica, inserita da Forbes tra i 100 leader del futuro under 30. Lei è salernitana, e alla nascita del progetto c’erano donne sia campane che lucane.
Come nasce il progetto Re-Generation Youth e a cosa è finalizzato?
È nato circa tre anni fa, grazie ad una call del Parlamento Europeo per l’European Youth Event di Strasburgo. Fu un momento molto competitivo, che vedeva la partecipazione di circa 9 mila giovani da tutta Europa. Il nostro fu l’unico progetto del Sud Italia ad essere ammesso. Noi eravamo dieci donne, campane e lucane. Avevamo una serie di stereotipi da rovesciare, gli stessi che determinano discriminazioni per le giovani donne del Sud e delle aree interne. Credevamo e crediamo nell’importanza di costruire un dialogo fattivo con le giovani generazioni, in un sistema in cui questi diventino sempre più protagonisti dell’agire, e non passivi spettatori. Ricordo ancora il primo evento che realizzammo: tutte le persone intervenute erano giovanissime. Fu divertente vedere in sala, per una volta dal lato del pubblico, istituzioni e “senior” ad ascoltare. Da Strasburgo in poi abbiamo lavorato in maniera scientifica, affidandoci al principio della transdisciplinarità, e infatti ogni componente del nostro think tank rappresenta un sapere specifico. Aggredire i problemi da un singolo punto di vista non è mai risolutivo, perché solo attraverso la compartecipazione e l’incontro di idee diverse si può affrontare un ostacolo nella sua pienezza. La scelta quindi di realizzare un think tank è stata sin da subito chiara: volevamo mediare tra le istituzioni e le istanze dei giovani dai territori, con una ricerca specializzata, o con progetti molto concreti, nelle scuole, con le imprese, con le realtà femminili. Crediamo sia importante colmare quel gap non solo di genere, ma generazionale, che scollega le decisioni della politica dalle persone.
Quanto ha influito, nel suo impegno sociale, l’essere una giovane donna del Sud?
Ha influito moltissimo. In Italia, purtroppo, mediamente a 30 anni si è considerati ancora giovani. Forse troppo giovani per alcune cose. Se poi sei donna ancora di più. Da qui la spinta per contrastare dei modelli che riteniamo stretti e inattuali. Su questo tema spesso le risposte sono di natura assistenzialistica, ma non è quello di cui c’è bisogno. Per questo credo che ci sia da portare avanti ancora, con responsabilità, un contributo di impegno civile. Le quote di genere sono misure temporanee, noi vogliamo invece promuovere una cultura diversa, che porti a scegliere donne nei consigli di amministrazione o nei ruoli di Governo per quello che davvero possono offrire, non solo per rispettare regole di composizione numerica.
Com’è invece la situazione negli altri Paesi europei?
Non è retorica, ma nel leggere il “Gender Gap Index” del World Economic Forum, si nota in maniera molto chiara quanto i Paesi del Nord siano molto più avanti rispetto all’Italia. Quello che ci ha fatto balzare dal 77esimo al - comunque insoddisfacente - 63esimo posto è stata la maggiore presenza di donne nelle istituzioni, seppur non in posizione apicale. Il Nord Europa rappresenta l’avamposto della modernità, dell’europeismo concreto, che si riflette sulla partecipazione delle donne nella costruzione della vita civile. In quei Paesi culturalmente non si affida “la cura” in maniera esclusiva al mondo femminile, ma è lo Stato che garantisce assistenza, misure di welfare paritarie, senza scaricare sulle donne tutte le responsabilità.
Gli effetti della pandemia graveranno principalmente sulle prossime generazioni. Pensa che questa crisi possa anche essere un’opportunità?
L’etimologia stessa della parola “crisi” ci riporta dal greco al concetto di scelta. Il Covid ha portato a uno stop pesante, e alla conseguente perdita di tantissime opportunità. Questa pandemia graverà principalmente, da un punto di vista socio-economico, sulle prossime generazioni. Come tutti i momenti di crisi però, lì dove c’è da fare una scelta si aprono nuove opportunità. I giovani riusciranno ad avere un ruolo decisivo solo se riescono ad essere massa critica, andando nella stessa direzione, chiedendo una giusta cooperazione alle istituzioni nei vari livelli. L’Unione europea sta facendo un grandissimo lavoro su questo. Con Re-generation Youth stiamo infatti lavorando alla Conferenza sul Futuro dell’Europa. Ragioniamo su politiche co-create per rendere il Parlamento e la Commissione più inclusivi, non solo sulla carta. Altro dato è quello dello sconforto psicologico, purtroppo molto forte nella nostra generazione. Ma bisogna avere fiducia e ottimismo, perché i varchi aperti necessitano della visione prospettica che solo i più giovani possono offrire.
Quali crede siano le direttrici da seguire in Italia per garantire uno sviluppo sostenibile?
Tutto quello che è nell’Agenda 2030 per il futuro del pianeta non può prescindere dall’impegno per l’inclusione. Dalle questioni di genere, alla povertà educativa. L’inclusione è il fil rouge che connette tutti i pilastri dell’agenda, e credo che per il nostro Paese sia necessario investire in maniera seria e concreta sull’educazione. Bisogna partire dalle scuole, perché siamo ancora lontani dai target adeguati. Il modello educativo francese può essere d’esempio, e può aiutarci ad uscire dalla crisi. Solo con una rinnovata e diffusa cultura possiamo farlo.
Di alcune sue dichiarazioni mi ha colpito il tema dell’importanza del fallimento. Che messaggio vuole lasciare ai più giovani?
Il fallimento caratterizza tutti i percorsi migliori e, perdere la bussola ogni tanto, aiuta a direzionare le vele verso l’orizzonte giusto. Non si tratta di un’occasione mancata o sprecata, ma di un elemento da valorizzare. Nel percorso fatto fin qui abbiamo trovato molte porte chiuse, ma questo ci ha dato la misura di quello che potevamo fare e di quali erano le correzioni da prendere. Il fallimento diventa quindi necessario per un percorso che non sia solo finalizzato alla produzione, ma anche alla costruzione di sé stessi e del proprio spazio nel mondo. È un momento importante perché i nostri occhi si alzano dal caos della quotidianità e ammirano il paesaggio. Se posso quindi lasciare un messaggio vuole essere questo: non cerchiamo di essere a tutti i costi invincibili, ma lasciamoci la libertà di prendere una pausa, di farci attraversare dal fallimento, per ripartire con nuove consapevolezze.