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La svolta energetica degli Stati Uniti

Le ripercussioni delle nuove politiche sul clima, annunciate da Joe Biden, al centro del Digital Talk organizzato da Orizzonti - idee dalla Basilicata.

di Michele Vitiello
23 marzo 2021
7 min di lettura
di Michele Vitiello
23 marzo 2021
7 min di lettura

Ogni parola ha conseguenze e ogni silenzio anche, scriveva Jean Paul Sartre, ragionando su come, da sempre, per l’umanità l’ambiente che viviamo sia la somma di scelte precise e di leggi fisiche. Ma quali sono le ripercussioni, in Italia e nel mondo, delle parole scelte per il nuovo corso della presidenza Biden? E quanto c’è di corrispondente tra il fatto e il pronunciato?

È stato questo il tema in oggetto del Digital Talk “L’Italia e la svolta energetica degli Usa”, organizzato da Orizzonti - idee dalla Basilicata il 24 febbraio scorso. Ad arricchire il confronto sono stati gli interventi di Marta Dassù, Senior Advisor European Affairs di The Aspen Institute, Marco Margheri, USA International Relations Office SVP di Eni e Mario Sechi, Direttore Responsabile di AGI e di Orizzonti, moderati da Mario De Pizzo, giornalista del Tg1. Per Marta Dassù, che ha introdotto l’argomento, le svolte per ora sono solo annunciate, ma ben poco praticate. Il ruolo degli analisti politici, sostiene Dassù, non può prescindere dalle valutazioni delle scelte energetiche, a cominciare per esempio dalla piena comprensione della guerra del Golfo del ‘91. I primi atti americani, come la scelta di includere John Kerry nel National Security Council, definendo il climate change un tema di sicurezza nazionale, rappresentano un cambio narrativo importante, riaffermato anche alla Conferenza di Monaco. L’America di Biden, sancendo il ritorno nell’Accordo di Parigi, ha riportato gli Stati Uniti ad un tavolo di dialogo multilaterale, dove per forza di cose dovrà sedere accanto alla Cina. Se oggi risulta difficile immaginarlo dobbiamo fare ricorso ai ricordi del passato, quando la guerra fredda non ha mai impedito il realizzarsi di accordi settoriali.

Il punto principale è che l’enfasi posta in questo tempo sul climate change determinerà un problema di leadership, tra le due superpotenze, in tema di green tech. Se Biden intende la politica estera come leva per il sostegno della classe media, si immagina che la strategia preveda una competizione accesa verso Oltreoceano, poco conciliante con le parole distensive rivolte alla comunità internazionale.

Il tema dell’ambiente, e quello del commercio, andranno sempre più a combinarsi, e su questo si misureranno anche le alleanze in Europa, stretta tra più spinte, come per l’attuale tensione tra Berlino e Washington causata dal Nord Stream 2, per il gas che arriva dalla Russia.

Le prossime sfide si misureranno invece sul cobalto, sul litio, e su altri materiali per i quali, aumentando le applicazioni tecnologiche, aumenteranno le richieste del mercato. In questo settore la Cina gestisce il 40 percento della riserva mondiale di terre rare, e controlla già il mercato con accordi stipulati in particolare con Cuba e alcuni paesi africani. Gli Usa dovranno avere la forza economica per competere, nella sfida che sta cambiando gli assi del globo, da Occidente a Oriente. E al netto delle intenzioni politiche il dato da cogliere è che, se nel passaggio da un’amministrazione all’altra le scelte possono prevedere decreti diametralmente opposti, l’industria ed il consenso, con la loro spinta, possono avere una funzione di riequilibrio. Per Marco Margheri gli Stati Uniti non sono oggi nella condizione di creare una rivoluzione green che sia condivisa e pienamente trasversale, perché le precarie geometrie interne alla maggioranza del Congresso, ma anche interne allo stesso partito democratico, non lo consentono. La visione strategica del nuovo corso è influenzata da pensieri di carattere competitivo, e la crisi pandemica ha spinto in maniera più consistente verso questa direzione. Oggi è appunto centrale per Biden occuparsi di tutto quello che incentiva le azioni di sviluppo del Paese. E le prossime politiche energetiche, molto più di quanto sia avvenuto a Bruxelles, passeranno per la scelta degli strumenti da utilizzare, più che per i quadri regolatori, gli obiettivi astratti e le policy: “facts on the ground”, si dice così. È tuttavia difficile immaginare, per Margheri, che nei prossimi due anni possano essere adottate misure ambiziose di carbon tax e di promozione del valore della CO2, a livello federale. È più probabile, infatti, che partano con un impegno condiviso grandi programmi di investimento e di sviluppo tecnologico.

Il primo scoglio che si incontrerà è quello sulla transizione energetica, ossia su come combinare questo giusto processo annunciato con la conservazione dei posti di lavoro e, anzi, con la diffusione della crescita. Il 27 gennaio scorso il Presidente Usa ha adottato un provvedimento di limitazione delle concessioni oil&gas, che certamente non impatterà sugli equilibri macro di domanda e offerta del Paese, ma determinerà un problema per esempio nel Wyoming, o nel New Mexico, dove questa industria garantisce occupazione a migliaia di persone, che occorre evidentemente ricollocare. C’è quindi la necessità di costruire catene di fornitura americane, per mantenere alti consenso e livelli di occupazione, e certamente una su tutte sarà quella delle rinnovabili. È da aggiungere un’osservazione realistica: Biden ha attivato un’iniziativa di sviluppo sui cosiddetti minerali critici, molto simile a quella della precedente amministrazione. Se quindi notiamo come cambi la narrazione, allo stesso tempo non cambiano del tutto gli strumenti, pur tuttavia in un’ottica di maggiore apertura rispetto al recente passato. Secondo Mario Sechi, l’attenzione è da spostare invece su un’indagine della cultura dominante, in tema di transizione energetica, che tenga conto ordinatamente dei dati di fatto, con la moderazione propria della realpolitik. Se invece dovesse prevalere, come si rischia oggi, l’idea della “cancel culture” dell’energia, allora l’umanità andrebbe a sbattere, perché si smonterebbe la modernità che ha portato benessere diffuso. Le intenzioni sono del tutto nobili, arcaiche, ma la narrazione non coincide con la cruda realtà.

Per Sechi, il Texas ne è un esempio. Il problema non è stato nella crisi della rete elettrica, ma nella crisi della cultura energetica. Si è pensato che si potesse fare a meno della fornitura di gas, e col gelo si sono fermate le pale eoliche, si sono letteralmente congelate le reti, ed è mancata una certa quota di energia, che non è stato possibile sostituire. L’episodio ha avuto un effetto scioccante, e a tratti paradossale, giacché il Texas è uno dei posti dove c’è più petrolio al mondo. I cittadini sono improvvisamente ripiombati nell’era giurassica: niente acqua, né riscaldamento. E la risposta al problema è stata nell’invio di generatori a diesel, che bruciano gasolio. Da ciò, conclude il direttore, dobbiamo ricordare quanto importante sia il valore della moderazione, che la risposta è nel mix energetico, e che attraverso lo sviluppo della tecnologia, un po’ alla volta, sia possibile ricorrere a soluzioni meno inquinanti. Bene la transizione ma si tenga in considerazione il dato della crescita demografica, e gli equilibri geopolitici che ne conseguono, scandisce Sechi. Se l’Occidente vuole mantenere il suo primato, che corrisponde alla libertà, ai diritti umani, alla democrazia, alla rule of law, allora dobbiamo ricordarci di tutto questo.