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Ripartizione delle competenze, è crisi tra gli enti

Il rapporto di diffidenza Stato e Regioni è all’ordine del giorno ormai da circa un anno. L’Italia in questo eccelle, purtroppo.

di Luca Grieco
23 marzo 2021
6 min di lettura
di Luca Grieco
23 marzo 2021
6 min di lettura

La crisi pandemica, nella sua travolgente pervasività, ha avuto l’unico vantaggio di mettere a nudo le sovrastrutture regolatorie che governano la nostra quotidianità. Tema, questo, che spesso è stato relegato al dibatto specialistico che si interroga - non sempre in modo pragmatico - sui migliori modelli amministrativi, quelli che abbiano l’efficienza come unico carattere distintivo. Statalismo, regionalismo, federalismo, parole di difficile comprensione e poco attraenti ai più, quando ci si ritrova immersi nella vita “normale”, e quando per attraversare linee di confine immaginarie non è necessario compilare un documento che giustifichi il nostro spostamento. Il rapporto di diffidenza tra lo Stato e le Regioni - in questi mesi particolarmente travagliato e segnato da contrasti acuti - è all’ordine del giorno ormai da circa un anno. L’Italia in questo eccelle, purtroppo. E uno dei perché lo si associa al riparto delle competenze del nostro sistema costituzionale che, riformato nel corso degli ultimi vent’anni, spacchetta le prerogative legislative distribuendole - in modo non del tutto efficiente - tra lo Stato e le Regioni.

Attualmente, l’assetto istituzionale prevede che le competenze siano ripartite in modo esclusivo e concorrente, vale a dire che su alcuni temi si decide autonomamente, mentre su altri è necessaria un’interlocuzione, nell’ottica della sussidiarietà. Questo schema ha prodotto, secondo i dati raccolti dal Sole 24 Ore nel settembre 2019, circa 1.800 ricorsi alla Corte Costituzionale. La Sanità, ad esempio, rientra ampiamente tra questi proprio perché la “tutela della salute” è una materia concorrente. E non si è persa occasione per rimarcarlo, questo principio, a suon di ricorsi e ordinanze. Caso emblematico è quello della Regione Marche: il Presidente, nel febbraio 2020, decide di chiudere le scuole di ogni ordine e grado per prevenire la diffusione del virus; segue, il giorno successivo, il ricorso del Governo al Tar e così la stessa ordinanza viene sospesa. Caso altrettanto simbolico è stato quello calabrese, che vede, nell’aprile dello scorso anno, l’allora Presidente della Regione adottare un’ordinanza con la quale si punta a riaprire ristoranti e bar con servizio al tavolo all’aperto. Secondo il Tribunale amministrativo, che ha annullato l’atto, la Regione aveva prevaricato le competenze del Governo, e non aveva rispettato il principio di leale collaborazione. La compressione dei diritti di rango costituzionale, pur spesso necessaria nei bilanciamenti della quotidianità, non è sempre di agevole realizzazione, soprattutto in periodi emergenziali come questo. È naturale che in un sistema così immaginato possano sorgere contrasti interpretativi, cui dà risposta la funzione nomofilattica della Corte.

Il recente e disinvolto uso dei decreti presidenziali, al posto dei decreti legge, ne è una conseguenza. Al contempo, la rincorsa al consenso dei presidenti di regione, ha inasprito i toni con finalità di posizionamento, ma se la richiesta di autonomia decisionale cresce sempre più, a questa non corrisponde sempre una pari assunzione di responsabilità.

Verso l’alto invece la cessione della sovranità trova accesso nel nostro Paese grazie all’art. 11 della Costituzione, utilizzato per legittimare il progetto politico dell’Unione Europea. Se ciò è servito a costruire l’impalcatura che ci consente l’esercizio di libertà su un territorio sovranazionale e più vasto, è anche vero che, all’opposto, a volte è risultata stretta alle diverse esigenze nazionali, imbrigliate in accordi non rispettati poi da tutte le parti.

Ultimo caso in ordine cronologico è quello riguardante i vaccini: l’8 gennaio 2021 la Pfizer ha ottenuto dall’Ema (l’Agenzia europea del farmaco) l’autorizzazione a che ogni fiala del proprio prodotto potesse rappresentare 6 dosi e non 5. Questa clausola, mai concordata durante gli accordi, determinerà l’impossibilità per l’Italia di rispettare il piano vaccinale che doveva chiudersi entro settembre, dal momento che il Paese non dispone di un numero adeguato di siringhe di precisione necessarie a estrarre 6 dosi da ogni fiala. Nel frattempo la Germania ha firmato un accordo parallelo con la BioNTech, azienda tedesca associata a Pfizer, che rischia di minare l’equa distribuzione dei vaccini tra gli Stati membri, garantendo a Berlino una fornitura aggiuntiva di 30 milioni di dosi.

Nei contratti firmati dalle istituzioni europee si parla sempre di dosi e non di fiale. I dettagli sono vincolanti allo stesso modo per tutti i Paesi, che sono tenuti a firmare due lettere d’ordine predeterminate nei contenuti da Bruxelles. Sono state fissate le quantità, i costi e i tempi delle forniture per tutti, ma il rispetto ne è minato da disequilibri egoistici. Le penali previste dai contratti tutelano le aziende, impegnate a rispettare gli accordi sulle forniture trimestrali, e non su quelle settimanali come avevano comunicato in precedenza.

Nel frattempo la tentazione di accedere al vaccino russo Sputnik diventa allettante per Ungheria e Serbia, mettendo in difficoltà la stessa Ema sollecitata da altri Paesi. L’impressione è che la strategia sia quella di arrivare allo “stato di emergenza”, per consentire una più veloce autorizzazione, come già avvenuto in altri 40 Paesi del mondo. Ad oggi si è ancora in fase di valutazione da parte del Chmp, il comitato dell’Ema per l’uso umano dei farmaci, dopo un’apparente incomprensione tra la Russia e l’Unione. Le dichiarazioni che arrivano da Mosca danno l’impressione che la burocrazia stia rallentando la tutela sanitaria dei cittadini, ma ufficialmente la Russia non ha ancora chiesto l’autorizzazione per l’approvazione del vaccino, né ha provveduto a inviare i dati necessari a superare gli standard europei.

In tutto ciò il peso del Governo figura in questi spazi ininfluente a fronte di dinamiche politiche, macro e micro, che ne impediscono l’esercizio ordinato di coordinamento e direzione.