Intervista a Gianfranco Viesti, tra i maggiori meridionalisti contemporanei. “I Comuni sono le principali vittime di tutte queste dinamiche, perché sempre più schiacciati”.
In un momento così complicato per l’impianto istituzionale italiano – e a cinquant’anni dalla nascita delle Regioni – è sicuramente utile e stimolante ascoltare il parere di illustri economisti ed esperti di politiche pubbliche come Gianfranco Viesti, tra i maggiori meridionalisti contemporanei.
Professore, questa emergenza sanitaria ha reso ancora più evidenti le disarmonie e i conflitti tra Stato e Regioni. Pensa anche lei che al termine di questa pandemia le Regioni risulteranno ridimensionate?
Spero di sì, perché il regionalismo italiano nel suo insieme, a distanza di cinquant’anni, e in particolar modo dopo la riforma del titolo V, merita qualche correttivo. Almeno tre. Il primo riguarda i conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni su chi fa che cosa, e qui dev’essere chiaro che nelle materie concorrenti deve essere lo Stato a definire le linee principali d’intervento, che poi le Regioni devono adattare alle proprie caratteristiche particolari. Il secondo correttivo chiama in causa direttamente il livello centrale, che ha curato molto poco il suo dovere di fissare le linee d’indirizzo. Si dice sempre che la Sanità è regionale. Ecco, non è proprio così, perché le linee d’intervento del Sistema sanitario, che è tuttora in vigore, le fissa lo Stato. Faccio un esempio: nessuno ha contestato la circostanza che da qualche mese vi sia un chiaro indirizzo nazionale verso un rafforzamento dei servizi socio-assistenziali di prossimità. E questo è un indirizzo politico giusto e doveroso, il primo che avviene da vent’anni a questa parte. Tanto che si può dire che le disomogeneità delle sanità regionali dipendono anche dal fatto che il centro non sempre ha fatto il proprio dovere. Il terzo e ultimo nodo problematico riguarda la fortissima personalizzazione della politica. I presidenti delle Regioni sono molto forti perché vincono elezioni dirette, e questo li induce a rivendicare quanti più servizi e trasferimenti possibili, senza minimamente porsi il problema se sia giusto oppure no trasferire certi poteri alle Regioni. Com’è evidente, il sistema è tutto da ridefinire.
E i Comuni? Non pensa anche lei – vista la necessità di rendere sempre più efficace una politica diciamo pure della “prossimità” – che, in questo processo di ridefinizione del rapporto tra lo Stato e gli enti locali, i Comuni debbano uscirne rafforzati?
I Comuni sono le principali vittime di tutte queste dinamiche, perché sempre più schiacciati dalle Regioni, che dispongono di competenze e risorse maggiori. E questa cosa deve anche far riflettere sulla pretesa di alcune Regioni di avere ancora maggiori poteri, nonostante sia sempre più evidente che i Comuni riescono a essere più vicini ai cittadini rispetto alle Regioni. Lo Stato ha tagliato fortemente le risorse per i Comuni, che sono costretti a erogare gli stessi servizi con sempre minori disponibilità finanziarie, e ha imposto il blocco del turnover del personale. Sicuramente in questo riassetto il potenziamento dei Comuni, soprattutto da un punto di vista finanziario, è priorità assoluta.
È vero che le Regioni hanno dotazioni finanziarie imponenti, ma è anche vero che circa il 70 percento di queste risorse vengono destinate al capitolo sanitario. Che senso ha un regionalismo che assorbe una percentuale così alta del budget complessivo di ogni singola Regione? Che senso ha, in altri termini, un regionalismo di fatto sanitario?
Il decentramento regionale è molto cresciuto negli ultimi vent’anni, e si è avvicinato alla media europea. Se si toglie la previdenza, che è nazionale, le Regioni e gli enti locali erogano metà della spesa nazionale. Il grosso della spesa sanitaria è regionale, l’istruzione è nazionale. Le Regioni però hanno risorse anche per altri settori. Certo, la Sanità per sua natura pesa di più. Ma le Regioni non fanno soltanto Sanità. Il 30 percento rimanente è una quota rilevante per gli altri settori di competenza regionale.
E in materia energetica che ruolo dovranno avere in futuro le Regioni? È ancora accettabile una politica energetica per ogni singola Regione?
In linea di principio le grandi norme in materia energetica non possono che essere di competenza statale. Le Regioni possono e debbono certamente avere una voce nel capitolo che riguarda le autorizzazioni e il controllo, ma il settore energetico è un ambito nel quale il maggior potere statale è, a mio avviso, auspicabile.
È possibile fare una valutazione complessiva sulla qualità della classe dirigente politica regionale?
È difficile, perché anche a livello nazionale, non solo regionale, è molto cambiato il criterio di selezione delle classi dirigenti. A me quello che sembra importante è che la maggioranza delle Regioni sono state affette, negli ultimi venti anni, dalla compulsione ad acquisire sempre più poteri e competenze indipendentemente dalla loro necessità o giustezza. Questo mi sembra un tema molto importante, perché noi non abbiamo soltanto un conflitto costante tra Regioni e Stato, ma anche tra Regioni e Regioni. E infatti uno dei grandi problemi politici è proprio il ruolo delle Regioni più forti, che richiedono sempre più poteri e sempre più risorse rispetto alle Regioni più povere.