EU at energy crossroads protest in Brussels

Un piano per l’Europa del futuro

Il fondo europeo per la ripresa aiuterà gli Stati membri ad affrontare l'impatto economico e sociale della pandemia, garantendo nel contempo che le loro economie intraprendano le transizioni verde e digitale.

di Serena Sabino
14 dicembre 2020
6 min di lettura
di Serena Sabino
14 dicembre 2020
6 min di lettura

È conosciuto in Italia come “Recovery Fund”, ma il nome corretto è “Next Generation EU”: Europa di prossima generazione. Nasce per rilanciare l’economia dei 27 Stati membri dell’Unione dopo la crisi scatenata dal Covid-19, ma punta contemporaneamente a porre le basi per un futuro più sostenibile, equo e digitale. “Con il piano per la ripresa trasformiamo l’immane sfida di oggi in possibilità, non soltanto aiutando l’economia a ripartire, ma anche investendo nel nostro futuro: il Green Deal europeo e la digitalizzazione stimoleranno l’occupazione e la crescita, la resilienza delle nostre società e la salubrità dell’ambiente che ci circonda”, ha detto la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, presentando il piano. “Il momento dell’Europa è giunto: la nostra determinazione dev’essere all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte. Next Generation EU ci permette di dare una risposta ambiziosa”. Next Generation EU è stato varato dal Consiglio europeo straordinario del 21 luglio scorso. L’ultimo faticoso via libera, in ordine di tempo, è arrivato il 10 dicembre, con l’approvazione da parte del Consiglio del bilancio comunitario 2021-2027, a cui il fondo è associato.

Ma cosa prevede il piano per la ripresa? I Capi di Stato e di governo dell’Unione hanno deciso di incrementare temporaneamente il bilancio europeo attraverso nuovi finanziamenti raccolti sui mercati finanziari tramite emissioni di titoli per un totale di 750 miliardi di euro. Questi fondi arriveranno nelle casse degli Stati membri in parte come prestiti (360 miliardi) e in parte come contributi a fondo perduto (390 miliardi), dopo un iter abbastanza lungo. La quota di finanziamenti a cui potrà accedere l’Italia, la più alta tra i Paesi dell’Unione, ammonta a quasi 209 miliardi di euro, di cui oltre 80 miliardi a fondo perduto.

Per ottenere i finanziamenti, i governi nazionali sono tenuti a inviare alla Commissione europea, entro la fine di aprile, Piani di ripresa e di resilienza (Pnrr) che definiscano il programma di riforme e investimenti fino al 2026, compresi target intermedi e finali e costi stimati. Sono ammissibili le misure avviate a partire dal 1° febbraio 2020.

Già da metà ottobre 2020 gli esecutivi hanno cominciato a far arrivare a Bruxelles i programmi preliminari, in modo da aprire subito un dialogo sui progetti. Una volta ricevuti i Pnrr definitivi, la Commissione europea avrà a disposizione 8 settimane per esaminarli e proporne l’approvazione al Consiglio Ecofin. L'Ecofin dovrà approvare definitivamente il piano a maggioranza qualificata entro 4 settimane. Ottenuta finalmente l’approvazione si potrà accedere al 10 percento del finanziamento globale. I tempi affinché si concluda l’iter sono, dunque, abbastanza lunghi e mal si conciliano con la recrudescenza della pandemia, cui stiamo assistendo, e con il conseguente aggravarsi della crisi.

Alla criticità relativa ai tempi (probabilmente i primi fondi si vedranno solo a partire dalla metà del 2021) se ne aggiunge una seconda che riguarda la “condizionalità” dei prestiti e dei trasferimenti: i governi nazionali non potranno decidere autonomamente come spendere le risorse del Recovery, ma dovranno seguire le indicazioni contenute nelle linee guida di Bruxelles. Inoltre, la realizzazione dei progetti finanziati dovrà avvenire nel rispetto dei tempi previsti, pena la revoca dei contributi europei.

I principali criteri alla luce dei quali saranno giudicati i piani sono la sostenibilità ambientale, la produttività, l’equità e la stabilità macroeconomiche. In particolare, la Commissione ha proposto che almeno il 37 percento delle risorse del Next Generation Eu contribuisca all’azione per il clima e per la sostenibilità ambientale e almeno il 20 percento vada a finanziare la transizione digitale dell’Unione. Gli Stati sono infine vincolati a usare i finanziamenti del Recovery per adempiere alle raccomandazioni individuali ricevute dalla Commissione nel 2019 e nel 2020. Tanto è bastato per mettere in allarme gli euroscettici; ma quanto, nei fatti, queste condizioni saranno stringenti è troppo presto per dirlo. Quello che si può dire sin d’ora è che difficilmente ci sarà un’altra occasione per investire tante risorse su temi strategici come la transizione verde e l’innovazione tecnologica. 

I settori trainanti

Non parliamo solo ed esclusivamente di agroalimentare, certamente uno dei settori di punta dell’identità regionale, ma è chiaro che le possibilità del commercio online si aprono soprattutto per i piccoli e medi artigiani lucani, che rappresentano il tessuto reale dell’imprenditoria locale. Ci sono state diverse aziende che, proprio durante il lockdown, hanno investito nel digitale per poter affrontare la crisi e provare a conquistare porzioni di mercato anche oltre i confini nazionali. Ne sono un esempio le aziende lucane del settore Horeca (acronimo che sta per Hotellerie-Restaurant-Café), che hanno parzialmente riconvertito la propria produzione realizzando manufatti in plexiglass venduti sui principali marketplace internazionali, vedendo crescere notevolmente le richieste, la produzione e il fatturato. Ma non per tutte è stato così. Come riportato nell’ultimo report della Casaleggio Associati, “E-commerce in Italia 2020. Vendere online ai tempi del Coronavirus”, molte aziende non sono riuscite a soddisfare l’aumento della domanda, che si è palesato con una crescita media degli ordini del 96% (come ad esempio per i settori dell’intrattenimento online, dell’istruzione o della distribuzione di generi alimentari). Sempre sfogliando il report è possibile notare come il fatturato delle imprese attive sull’e-commerce è aumentato nel 2019 del 17%, per un totale di 48,5 miliardi di euro. Ma nonostante ciò, dal rapporto emerge come il 54% delle imprese interrogate abbiano dichiarato a metà marzo 2020 di non aver riscontrato un miglioramento negli affari. C’è, però, una fascia di persone che all’e-commerce non riesce a ricorrere: sono i residenti dei piccoli paesi e delle aree urbane escluse dalle reti più inclini a soddisfare le esigenze di realtà più popolate, sicuramente ben più redditizie. Ed è guardando a loro che oggi, anche in Basilicata, può nascere una nuova idea di impresa che tenga dentro la valorizzazione delle produzioni a “km 0” e la possibilità di aprire nuovi mercati mondiali.