28/05/2021 - I sindacati lucani sostengono che 15.000 posti di lavoro sono a rischio se verrà attuato lo sblocco dei licenziamenti. Mi colpisce molto l’affermazione di quanti sostengono che per far ripartire l’economia lucana bisogna smetterla di essere colonizzati dalle multinazionali – che ovviamente agiscono secondo le leggi del mercato globale – e puntare sulle vocazioni produttive del territorio. Ma quando si chiede a queste “anime belle” quali siano le vocazioni “pure” del territorio lucano, la risposta è sempre la stessa: l’agricoltura. L’agricoltura è un comparto importantissimo – per patrimonio sapienziale, culturale, sociale, antropologico, ma anche per innovazione, ricerca, export – ma è un comparto che non può da solo, magari in accoppiata con il solito turismo – altra parola-chiave delle “anime belle” – dare risposte soddisfacenti alla domanda di lavoro e di ricchezza pro-capite della Basilicata. E soprattutto: perché in tutto il mondo le fabbriche di un territorio possono provenire da ogni dove, mentre in Basilicata dovrebbero essere esclusivamente figlie di una vocazione autoctona? Per caso la Basilicata è terra pura tra terre impure? Il cosiddetto “sviluppo dal basso” è sicuramente un pezzo importante dell’economia e dell’identità socio-lavorativa di un territorio, ma in epoca moderna non basta. Altrimenti le conseguenze sono molto semplici: tendenza all’emigrazione, alla disoccupazione, ai salari bassi e a un’eccessiva dipendenza dalle politiche pubbliche di assistenza. A meno che non si abbia il coraggio di sostenere fino in fondo le ragioni ideologiche della decrescita felice e del km 0. Ovvero del ritorno a un’economia di sussistenza da villaggio rurale pre-moderno.
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