15/01/2021 - La pubblicazione della mappa dei siti potenzialmente idonei a ospitare il futuro deposito nazionale per i residui nucleari ha suscitato un uragano di polemiche. La totalità, o quasi, dei territori interessati ha immediatamente replicato contestando la propria idoneità o rifiutando di essere coinvolti nella definizione della localizzazione. Non vogliamo entrare nel merito delle posizioni assunte, né ricordare la complessa vicenda che vide la Basilicata nell’occhio del ciclone, quando fu individuato in Scanzano Ionico il sito ove realizzare il deposito unico.
Ma tutti dovremmo sapere che vi sono norme di origine europea che impongono a ogni paese di risolvere in maniera adeguata il problema dei residui radioattivi, sia che essi derivino dalle attività delle centrali nucleari, ormai tutte e quattro dismesse dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, sia che vengano dalle attività industriali o di diagnostica e terapia medica. Nessuno obbliga l’Italia a realizzare un deposito unico nazionale, ma la direttiva europea 2011/70 ci impone di risolvere alla radice il problema offrendo tutte le garanzie di sicurezza necessarie. Il che si traduce facilmente nell’assunto in base al quale gestire in condizioni accettabili venti o più depositi occasionali di materiali radioattivi, come accade oggi, è pressoché impossibile e che, dunque, soltanto la costruzione di un deposito appositamente progettato può rispondere ai criteri di sicurezza imposti dalla normativa internazionale.
Oltretutto, per il nostro paese il problema è relativamente più semplice che per i paesi dove l’energia nucleare è ancora oggi largamente diffusa (in primis la Francia, ma anche Germania, Svezia, Spagna, Belgio, solo per citare quelli con il maggior numero di reattori nucleari in esercizio). Per noi si tratta di collocare in sicurezza circa 40 mila metri cubi di residui, a fronte dei 3.466.000 metri cubi che gravano sull’insieme dell’Unione europea. L’ultima relazione della Commissione sull’applicazione della direttiva del 2011, datata 17 dicembre 2019, recita testualmente: “Tutti gli Stati membri dotati di programmi nucleari, eccetto uno, prevedono lo sviluppo di depositi di smaltimento geologico”. Alcuni paesi (Francia, Spagna e Finlandia) hanno già depositi in esercizio, altri li stanno costruendo e soltanto i paesi che non hanno mai ospitato centrali elettronucleari e per i quali, dunque, i residui radioattivi sono costituiti soltanto da quelli di origine ospedaliera e industriale, sono ancora privi degli impianti adatti. Noi non abbiamo né gli impianti né un progetto concreto per realizzarli e lo stesso Programma Nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi porta la data del 10 dicembre 2019. L’11 luglio 2019 la Corte di giustizia dell’Ue ha pronunciato la sentenza (C-434/18) in cui accoglieva le richieste della Commissione perché “la Repubblica italiana, non avendo notificato alla Commissione europea il suo programma nazionale per l’attuazione della politica di gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, è venuta meno agli obblighi a essa incombenti”. In seguito alla sentenza la Commissione ha aperto una procedura di infrazione, quindi l’Italia ha presentato il Programma, ma manca ancora un progetto concreto e, se non daremo seguito agli obblighi, seguiranno le sanzioni. Non tutto è perduto, ma è ormai una corsa contro il tempo.